Brescia - Festa patronale, allestite a Brescia 602 bancarelle fino alle 22, viabilità modificata e parcheggio di piazza Vittoria chiuso.
In occasione della festa patronale si sono svolte
celebrazioni, presieduta dal
vescovo Pierantonio Tremolada, ecco l'omelia:
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La Festa dei nostri Santi Patroni Faustino e Giovita – che ci vede qui riuniti a celebrarne le lodi e a rinnovare il nostro affidamento alla loro intercessione – cade quest’anno nel tempo del Giubileo, l’anno santo nel quale ricordare a tutti che Dio fa grazia e sempre rivolge all’umanità il suo volto misericordioso.
Papa Francesco ha voluto esortare l’intera Chiesa a vivere questo anno con uno spirito particolare, facendosi carico delle attese, delle gioie, delle ansie, delle sfide del mondo contemporaneo. Ci ha raccomandato di presentarci come pellegrini di speranza. Ritengo sia d’obbligo raccogliere il suo invito anche in questa solenne circostanza e soffermarci a meditare sulla natura e sulle ragioni della speranza, una delle virtù costitutive dell’esperienza cristiana, e sul valore che essa assume per questo nostro tempo e per la nostra città.
Mi è caro partire da un celebre testo di Charles Peguy, stralciando alcune espressioni dal poema da lui composto proprio sulla speranza.
Così egli scrive: “Dice Dio: la speranza, sì, la speranza mi sorprende!
Che questi poveri figli miei vedano come vanno le cose e credano che domani andrà meglio. Questa piccola speranza che sembra cosa da nulla, questa speranza bambina! Essa avanza tra le due sorelle maggiori. È lei, al centro, a spingere le sue sorelle più grandi”.
La speranza – ci dice questo grande pensatore cristiano – è la virtù bambina, la più piccola, che tuttavia spinge le due sorelle maggiori, la fede e la carità, e le trascina con sé. D’altra parte, sono queste ultime – la fede e la carità – che consentono alla speranza di prendere slancio, di correre avanti, di alzarsi da terra e di elevarsi addirittura al di sopra di loro, come avviene quando camminando con i bambini li si lancia in alto tenendoli per mano. La fede e la carità tengono saldamente per mano la speranza, non la lasciano in balia di se stessa e le impediscono di trasformarsi in illusione.
Vorrei riflettere con voi sul rapporto che la speranza intrattiene in particolare con la carità e provare a mostrare la verità di una affermazione che prende spunto dal pensiero di san Paolo e che suona così: solo una vera esperienza dell’amore genera e tiene viva la speranza.
Ci offre un punto chiaro di riferimento un passo importante della Lettera di san Paolo ai Romani, nel quale l’apostolo stabilisce una chiaro rapporto tra la speranza e l’amore. Egli infatti dichiara: “La peranza (di noi che abbiamo creduto in Cristo) non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). San Paolo ha poco prima ricordato le prove che i suoi fratelli sono chiamati ad affrontare – tribolazione e
persecuzione – ma subito aggiunge che proprio da queste prove sorge una speranza che non li deluderà, perché l’amore di Dio è stato riversato nei loro cuori dallo Spirito santo che hanno ricevuto in dono.
L’affermazione è molto chiara. È dunque l’esperienza interiore dell’amore di Dio che suscita la speranza. Le tribolazioni stesse diventano occasione per renderla più forte, perché attraverso di esse cresce la fiducia in Dio ed egli potrà mostrare ancora più chiaramente il suo amore fedele.
Dobbiamo tuttavia riconoscere che l’amore di cui parla san Paolo ci risulta misterioso. Si tratta infatti dell’amore di Dio, che per noi sarà sempre insondabile. Solo Dio sa quale sia la vera natura del suo amore. Per esprimere la dimensione trascendente di un simile amore, la tradizione cristiana ha coniato un termine tipicamente suo, quello di carità. La carità è appunto l’amore che viene da Dio, che è in Dio, che è Dio stesso: è l’amore del Padre per il Figlio nello Spirito santo, l’amore della Trinità beata. Chi dunque mai potrà conoscerlo? Vi è tuttavia una forma umana della carità divina. È quella testimoniata da Gesù, il Figlio amato del Padre divenuto uomo come noi per essere nostro Salvatore. In lui la carità si è fatta carne ed è diventata umana. A questa forma visibile dell’amore insondabile di Dio noi diamo il nome di bontà. Il Cristo è stato l’uomo buono per eccellenza, colui che ha condotto l’umana capacità di amare al suo punto più alto.
Questa bontà continua a manifestarsi in tutte le persone che si aprono, consapevolmente o meno, all’azione dello Spirito di Dio. Sono le persone che definiamo buone, di cui il mondo deve andare fiero. Sono il miracolo di Dio dentro la travagliata storia dell’umanità.
Vorrei qui fare l’elogio della bontà e manifestare la convinzione che proprio la bontà va considerata il fondamento della nostra speranza. È stato giustamente osservato che la bontà ha subito dagli uomini stessi una sorta di mortificazione. La si è diminuita, deviata, degradata nel suo significato.
In diversi casi ha assunto un senso retorico o addirittura patetico: parliamo spesso di buone azioni, di buona famiglia, di buoni sentimenti ma lo facciamo con un certo imbarazzo. Quando diciamo di qualcuno che è un buon cristiano non siamo sicuri che questo significhi che è un santo. Addirittura qualifichiamo buono un affare. Questo deterioramento del termine è segno che si è sbiadita la realtà che esso significa. Tutto quello che ha sostituito la bontà – la solidarietà, la generosità, la dedizione –per quanto apprezzabile, porta in sé l’idea di una misura che comunque si ritiene opportuno fissare. Non è così per la bontà. Non si può essere abbastanza buoni. O li è o non lo si è. E forse non è un caso che questo sia l’unico aggettivo che possiamo usare con i bambini. Si comprende allora perché l’incontro di un uomo veramente buono o di una donna veramente buona suscita sempre stupore, produce negli altri un potente effetto di ossigenazione.
Come si manifesta dunque la bontà? Che forma prende in quanti la testimoniano? Potremmo dire che il tratto distintivo della bontà è quello dell’amore che incontra l’umano nella sua strutturale fragilità, nel suo limite, nella sua finitudine e ultimamente nella sua debolezza.
Possiamo individuare tre forme in cui il limite della condizione umana si manifesta: vi è il limite della fragilità fisica e psichica; vi è poi il limite dell’errore e della colpa; vi è infine il limite della fragilità spirituale, cioè della fatica e dell’incomprensione. Vi corrispondono tre espressioni della bontà: la cura affettuosa per chi è ferito nel corpo e nella mente; il perdono e il desiderio di riscatto, per chi sbaglia o offende; la pazienza e la benevolenza, per chi non è all’altezza.
Va aggiunto che, pur nelle ristrettezze del limite, la persona umana sperimenta anche il bene e il bello. La bontà risponde a tutto questo con la gratitudine e la lode per il bene ricevuto, con l’interiore soddisfazione per il bene compiuto, con la gioia e la letizia per il bene diffuso e riconosciuto.
È semplicemente suggestivo constatare, leggendo i Vangeli, come tutto questo si è attuato nella persona e nella missione del Signore Gesù, nostro Redentore. Che la bontà abbia una rilevanza sociale è quanto appare opportuno richiamare in questa circostanza, mentre guardiamo alla nostra città e al suo futuro. Mi appare suggestivo rileggere in questa prospettiva la celebre formula di san Paolo VI – il nostro amato papa – il quale esortava tutti a costruire la civiltà dell’amore. Sappiamo che la società e la civiltà non si identificano. La societas, intesa come l’insieme di soggetti che si considerano soci, allude ad una organizzazione razionale e sostenibile di interessi semplicemente accostati. La civitas è invece la società portata alla sua piena espressione, elevata alla sua forma più nobile, sviluppata positivamente nei suoi aspetti costitutivi. Che alla base di tutto questo vi sia l’amore, che cioè sia l’amore a dar vita a una civiltà, ci appare suggestivo e convincente. E poiché la forma umana dell’amore trascendente è la bontà, dovremo dire che la società diviene civiltà grazie alle persone buone che la compongono.
Il Concilio Vaticano II ama usare la formula uominie donne di buona volontà, con la quale designa coloro che, con impegno e retta coscienza, fanno della bontà la fonte ispiratrice di ogni progettualità sociale. Non si tratta semplicemente buoni sentimenti. La bontà è uno slancio del cuore che impegna seriamente sul piano dell’azione: è coraggiosa, tenace, creativa, conosce l’empatia e l’affetto e non si ferma di fronte al sacrificio.
Forse siamo in controtendenza, ma, quando pensiamo al vivere sociale, noi apprezziamo moltissimo i gesti d’amore, le parole buone, gli sguardi affettuosi rivolti ai più deboli: ai bambini, agli anziani, ai poveri, ma anche a coloro che hanno sbagliato e che vorrebbero riscattarsi. Riteniamo che il grande compito dell’uomo sia quello di conservare buono il suo cuore, lasciandosi conquistare dalla bontà del Cristo Redentore, che è segretamente all’opera nel mondo. Egli infatti ha detto: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene” (Lc 6,45).
Edificare oggi la civiltà dell’amore attraverso la forza disarmante della bontà significa porre le basi per un futuro sereno e perciò dare speranza al mondo. Le struggenti parole del Concilio Vaticano II suonano qui oggi particolarmente attuali: “Con il necessario aiuto della grazia divina – scrivono i padri conciliari – sorgano uomini veramente nuovi, artefici di una nuova umanità … Si può legittimamente pensare che il futuro dell'umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza (Gaudium et Spes, 30-31). Sono questi gli uomini e le donne di buona volontà, nei quali ha trovato casa la bontà stessa di Dio".