Verbania - Grande successo sta riscuotendo la rassegna "Armonie Verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al “Novecento", con opere d’arte della Fondazione Cariplo e del Museo del Paesaggio di Verbania, in corso fino al 30 settembre a Palazzo Viani Dugnani.

Il Museo del Paesaggio di Verbania - dopo la riapertura nel 2016 con la splendida mostra dedicata a Paolo Troubetzkoy aperta in modo permanente al piano terra e la bella rassegna del 2017 I volti e il cuore, sulla figura femminile tra Otto e Novecento - riapre la stagione primaverile con una incantevole mostra dedicata al paesaggio, Armonie verdi. Paesaggi dalla Scapigliatura al Novecento.
La rassegna, nata dalla collaborazione tra Fondazione Cariplo e Fondazione Comunitaria del Verbano Cusio Ossola, è la quinta tappa dell’iniziativa Open, tour di eventi espositivi, in collaborazione con le Fondazioni di Comunità, che sta portando il patrimonio artistico dell’ente milanese, in tutta la Lombardia, nelle province del Verbano-Cusio Ossola e di Novara.
L’intento del tour Open è promuovere l’impegno delle Fondazioni di Comunità a favore del proprio territorio; diffondere i temi della filantropia, della cultura del dono e della comunità, divulgare la conoscenza del patrimonio artistico locale (oltre a quello di Fondazione Cariplo). E soprattutto portare l’arte all’attenzione di un vasto pubblico di giovani, proponendo loro di utilizzarlo come risorsa di studio e per sperimentare percorsi di apprendimento in ambito culturale e artistico.
I CURATORI - La mostra, curata dalla storica dell’arte Elena Pontiggia e da Lucia Molino, responsabile della Collezione Cariplo, si svolgerà in 3 sezioni: Scapigliatura, divisionismo, naturalismo; Artisti del Novecento Italiano; Oltre il Novecento, e svelerà l’incanto di circa cinquanta opere – tra cui dipinti di Daniele Ranzoni, Francesco Gnecchi, Lorenzo Gignous, Emilio Gola, Mosè Bianchi, Carlo Fornara, Ottone Rosai, Filippo De Pisis, Arturo Tosi, Umberto Lilloni - provenienti dalle Raccolte d’arte della Fondazione Cariplo, del Museo del Paesaggio di Verbania e da collezioni private.
Un suggestivo e affascinante viaggio tra capolavori d’arte di fine Ottocento alla prima metà del Novecento, che si snoda lungo scenari di grande poesia, bellezza e colori, per indagare il rapporto senza tempo tra uomo e natura.
La panoramica delle opere scelte testimonia le variazioni dell’interpretazione del paesaggio, dalla centralità ancora di origine romantica che il tema occupa nella pittura di fine Ottocento, alla interpretazione volumetrica degli anni Venti, dove il paesaggio è costruito come un’architettura e suggerisce un senso di solidità e di durata, fino al nuovo senso di precarietà espresso a partire dagli anni Trenta.
LE OPERE - La mostra muove dai paesaggi di Daniele Ranzoni, maestro della Scapigliatura, di cui sono esposte tre opere tra cui lo Studio di paesaggio fluviale (1872), un acquerello colmo di luce, simile a un’apparizione.

Seguono Lorenzo Gignous con la bella Veduta del Lago Maggiore (1885-1890) ; Mosé Bianchi, con Interno rustico (1889-1895); Federico Ashton con la spettacolare Cascata del Toce in Valle Formazza (1890), Carlo Cressini con il suggestivo Le gelide acque del lago di Märjelen (1908 ca) ; Francesco Gnecchi con Fondo Toce (Lago Maggiore) (1884).
Dalla fine dell’Ottocento al tempo di guerra a tener viva una pittura di paesaggio sono soprattutto i divisionisti. Ecco dunque Vittore Grubicy con l’elegiaco e commosso Cimitero di Ganna, 1894, Cesare Maggi con il lirico trittico Neve, 1908 e Nevicata, 1908 e 1911; Carlo Fornara con lo scenario campestre de I due noci, 1921, a cui si possono accostare Guido Cinotti con Marina (1910-1915), paesaggio di sola luce e colore e Clemente Pugliese Levi con l’altrettanto spirituale Cave di Alzo, 1920. La sezione si conclude con i paesaggi brianzoli di Emilio Gola e le vedute di Pietro Fragiacomo (il cui Armonie verdi dà il titolo alla mostra) , Teodoro Wolf Ferrari, Antonio Pasinetti.
Il paesaggio, poco considerato dai futuristi che amavano la città industriale e la macchina, torna a riaffermarsi in pittura col Ritorno all'ordine e col Novecento Italiano, cui è dedicata la seconda sezione della mostra. La sezione si vale anche di due prestigiosi nuclei di opere recentemente assicurati, con un deposito, al Museo del Paesaggio: Il lago, 1926, di Sironi, e un importante serie di paesaggi di Tosi.
Sono qui esposte cinque opere di Mario Tozzi, emblematiche del passaggio dall’impressionismo ai valori classici: la poetica Casetta a Suna, oggi Verbania, del 1914; Cimitero di Suna e La passeggiata, luminose opere impressioniste del 1915; Neve a Lignorelles, 1921 e Paesaggio di Borgogna, 1922, entrambe ormai novecentiste, dipinte con forme più dense e volumi più definiti. Anche Anselmo Bucci con Il governo dei cavalli, 1916, documenta un momento di transizione.
Col Novecento Italiano infatti alla volatilità dei paesaggi precedenti subentrano opere caratterizzate da forza costruttiva e solidità, come Paesaggio, 1922, di Rosai: Ornavasso, 1923 e Guardando in alto, 1925, di Carpi; Pioppi, 1930, di Michele Cascella; Paesaggio invernale, 1930 e Piazza Santo Stefano a Milano del 1935, stilizzati e stupefatti paesaggi urbani di Penagini. Emblematico di questa sezione è Il lago, 1926, di Sironi, che non ha nulla di grazioso o di pittoresco: è il frammento di un mondo senza tempo, immobile, incastonato in una chiostra anch’essa immobile di montagne.
Di Tosi infine vediamo Cipresso a Zoagli, Le tre betulle, Fuori dallo studio, Ulivi a Montisola, Il piantone e Lago di Como, dipinti tra il 1923 e il 1940. Nel Novecento Italiano Tosi rappresenta l’ala più vicina alla tradizione lombarda ottocentesca. La sua pennellata fluida e pastosa si riallaccia a una scuola pittorica che dal Fontanesi e dal Piccio giunge alla Scapigliatura e a Gola. Con il Novecento Tosi condivide però il senso della sintesi e di una salda struttura architettonica, mutuata soprattutto da Cézanne.
Con gli anni Trenta le cose cambiano nuovamente, si abbandonano le forme volumetriche e la pittura torna a esprimere un senso di finitezza e precarietà. Lo si vede nel tremante Temporale (1933), di De Pisis; in Paesaggio di Lavagna (1934) di Lilloni, o in opere del secondo dopoguerra di Dudreville (Case a Feriolo, 1945) e Soffici (Veduta serale del poggio,1952).
BIOGRAFIE ARTISTI
ASHTON FEDERICO
Nato a Milano nel 1836 da padre inglese e madre fiorentina, Federico Ashton frequenta l’Accademia di Brera, dove ha come insegnante Gaetano Fasanotti: l’ispirazione al vero è sicuramente quanto di meglio Ashton ha avuto dalla scuola del Fasanotti, temperata da un gusto romantico per la visione. Comincia a dipingere e ad esporre i suoi quadri abbastanza presto, dedicandosi con prevalenza al paesaggio e raccogliendo notevoli ed immediati successi. Trova il suo paesaggio ideale nell’Ossola e nella vicina Svizzera, dove ha come maestro il famoso Alexandre Calame. La sua ricerca pittorica lo porta un po’ ovunque nelle Alpi, ma il maestoso Monte Rosa rimane la montagna da lui prediletta. Trascorre gran parte degli anni ’70 a Roma per perfezionare la sua pittura ed insegnare alle signorine dell’aristocrazia, mentre nel decennio successivo abita spesso sul lago Maggiore, entrando in contatto con alcuni esponenti del naturalismo lombardo e dirigendo anche una scuola di pittura a Pallanza. Dal 1892 abita stabilmente a Domodossola, punto di partenza per escursioni nelle vallate ossolane e svizzere, dipingendo valli, alpeggi, paesi, passi, ghiacciai. Nel 1904 muore cadendo in un burrone nei pressi del passo del Sempione.
BARBIERI CONTARDO
Diplomatosi all'Accademia di belle arti di Brera nel 1921, ha inizialmente rielaborato la tradizione figurativa lombarda tardo-ottocentesca, attratto dalle ricerche sulla luce e sul colore di Emilio Gola, Daniele Ranzoni, Emilio Longoni. Senza abbandonare la matrice realista della propria pittura, nel corso degli anni venti ha raggiunto una resa delle forme più solida e sintetica sulla suggestione delle coeve ricerche del gruppo Novecento, al quale ha aderito dopo la prima mostra milanese del 1926. Dall'esordio nel 1927 all'"Esposizione nazionale d'arte", allestita presso il palazzo della Permanente a Milano, ha partecipato a numerose mostre, tra cui nel 1928 la Biennale di Venezia. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti con un vasto repertorio di ritratti, figure femminili, nature morte, oltre a paesaggi, nei quali ha coniugato il severo linguaggio novecentista allo studio dal vero. Fu nominato direttore dell'Accademia Carrara di Bergamo nel 1931 e nell'ambito del rinnovamento culturale della città, eseguì nel 1938 per la casa littoria "A. Locatelli" una decorazione murale, poi distrutta. Alla metà degli anni trenta partì volontario in Africa orientale. In coincidenza con il fallimento dell'ideologia fascista maturò una crisi artistica culminata nel 1942, con il ripiegamento su modelli e schemi derivati dall'arte antica. Nel 1959 tre sue opere (Paesaggio ligure, Nello studio e Colline lombarde) vennero esposte alla mostra 50 anni d'arte a Milano. Dal divisionismo ad oggi, organizzata dalla Permanente.
BIANCHI MOSE'
Figlio di Giosuè, insegnante di disegno e pittore (ritrattista ed esecutore di pale d'altare, di miniature ed acquerelli), e di Luigia Meani, Mosè nasce a Monza il 13 ottobre 1840. Compiuti gli studi tecnici nel collegio Bosisio, nel 1856 s’iscrive all'Accademia di Brera di Milano. In questi anni stringe rapporti di amicizia con i compagni di corso: Filippo Carcano, Tranquillo Cremona, Federico Faruffini e Daniele Ranzoni, condividendo con essi, qualche anno dopo, lo studio milanese in via San Primo. I suoi primi lavori, di carattere romantico, sono chiaramente influenzati dallo stile del Bertini. Arruolatosi nelle file garibaldine, fece parte di un battaglione di Cacciatori delle Alpi, ma sembra non prese mai parte a nessun combattimento e inoltre, che per la sua indisciplinatezza passò buona parte di quel tempo agli arresti. Completati gli studi nel 1864, dipinse per la chiesa di Sant’Albino, presso Monza "La comunione di S. Luigi Gonzaga", e subito dopo, il suo primo quadretto di genere, "Vigilia della sagra", 1864, (Galleria d'Arte Moderna di Milano), briosa e vivace scena, nella quale emergono già tutte le qualità che il pittore dimostrerà negli anni a venire. Il periodo trascorso a Venezia lo mette a contatto con i grandi pittori veneti del '700, dal Ricci al Guardi, facendo maturare il suo istinto pittorico. Per due anni vive fra Venezia e Parigi e la sua pittura passa dai temi storici, religiosi e letterari d'ispirazione romantica, a scene di genere e costume, caratterizzate da una guizzante pennellata. Nel 1869, rientrato a Milano, espone a Brera, riscuotendo grande successo. Oramai affermato, nel 1870 realizza "Benedizione delle case" (Accademia di Brera, Milano); nel 1872 la "Cleopatra" (Galleria Durini); nel 1874 un "Interno del duomo di Monza" (collezioni del re del Belgio). Dal 1871 è consigliere dell’Accademia di Brera. Ripetuti soggiorni a Venezia lo inducono a realizzare vedute lagunari, replicate in numerose versioni. Alla fine degli anni Settanta inizia la sua attività di frescante con il ciclo nella Villa Giovanelli a Lonigo, presso Vicenza, seguiti, nel 1883, dalla decorazione della saletta della Stazione ferroviaria di Monza e nel 1885 dalle decorazioni di Palazzo Turati a Milano. Nel 1890 a Gignese, sopra il Lago Maggiore, dipinge, forse con l'ausilio fotografico, una serie di vedute alpine, ove i grandi massi di pietra fanno da sfondo a isolate figure di giovani pastori. Dello stesso periodo sono anche le suggestive vedute di Milano, spesso innevata, e della periferia lungo il Naviglio. Si dedica, anche all’acquaforte ricevendo, nel 1896, un premio al Concorso della Calcografia Nazionale. Nel 1898 è nominato insegnante e direttore dell’Accademia Cignaroli di Verona. Alla fine del 1899, a seguito di malattia, ritorna a Monza ed abbandona la pittura. Si spegne nella città che gli diede i natali il 15 marzo 1904.
BUCCI ANSELMO
Anselmo Bucci nasce a Fossombrone, in provincia di Pesaro, il 25 maggio del 1887. Artista italiano, pittore e incisore, autore anche di alcuni testi letterari di rilievo, è stato uno dei protagonisti delle nascenti avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento, tanto in Italia che in Francia. Durante la permanenza della famiglia nei dintorni di Ferrara, il giovane Anselmo è seguito nel disegno dal noto pittore Francesco Salvini. Nel 1905 poi, si iscrive all'Accademia di Brera, a Milano, pur risiedendo a Monza, con la sua famiglia. Tuttavia, sin da questi anni, rivela la sua insofferenza nei confronti della retorica pittorica e già l'anno dopo, nel 1906, si trasferisce a Parigi, all'epoca capitale dell'avanguardia artistica. Conosce Gino Severini, Pablo Picasso, Amedeo Modigliani e molti altri. Inoltre comincia a farsi apprezzare come incisore, arte nella quale diventa maestro, attirando su di sé l'attenzione di critici come Apollinaire e Salmon. Nel 1907 Bucci espone un dipinto al Salon. Tuttavia prosegue con grande impegno i suoi studi nell'incisione, appassionandosi alle diverse tecniche, come l'acquaforte e, soprattutto, la punta secca, la quale gli permette di sviluppare le sue tematiche incentrate sul movimento dei soggetti. Il biennio che va dal 1912 al 1913 è per lui quello dei viaggi. Fedele alla tradizione dei pittori francesi, decide di spostarsi in giro per l'Europa e per il Mediterraneo, studiando nuove colorazioni e luminosità. Visita diversi luoghi viaggiando in Sardegna, in Africa, nel sud della Francia: tutti i lavori di questo periodo sono caratterizzati dai suoi spostamenti. Nel 1914, quando scoppia la Prima Guerra Mondiale, Anselmo Bucci si arruola volontario nel "Battaglione Ciclisti", in Lombardia. Di questa squadra fanno parte anche altri artisti e poeti futuristi come Marinetti, Boccioni, Sant'Elia e Carlo Erba. Nello stesso anno, alla Mostra dell'Incisione di Firenze, l'artista pesarese si aggiudica la medaglia d'argento. La guerra lo ispira e diventa uno dei più prolifici "pittori di guerra". Nel 1920 viene invitato alla Biennale di Venezia. È intorno a questa data che avviene in Anselmo Bucci un mutamento di stile, il quale lo riporta verso una svolta di tipo classicista. Si accosta allora alla cerchia di intellettuali e artisti che fanno capo alla scrittrice Margherita Sarfatti e nel 1922, insieme con Sironi, Funi, Dudreville (che aveva già conosciuto durante il periodo di Brera), e anche con Malerba, Marussig, Oppi, dà vita al cosiddetto gruppo del "Novecento". È lui, anzi, a battezzarlo con questo nome. L'intento programmatico è quello di ritornare alla figura, alla riconoscibilità del soggetto, distaccandosi dagli estremismi delle avanguardie nascenti, sempre più lontane dalla classicità. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, come la Prima, è per Bucci anche un'occasione per rimettersi in gioco dal punto di vista artistico. Così, durante il conflitto, si ricicla come interprete figurativo delle imprese di guerra. Incide raffigurazioni legate alle imprese della Marina e dell'Aviazione Militare. Nel 1943 la sua casa di Milano, sede anche del suo studio, viene distrutta. Così ritorna a Monza in quella che è la casa della sua famiglia. Trascorre i suoi ultimi dieci anni in pieno isolamento. Nel 1949 ottiene l'ultima onorificenza per la sua arte: il Premio all'Angelicum, un riconoscimento per l'arte sacra.
CARPI ALDO
Nato a Milano nel 1886, Aldo Carpi studia dal 1906 all’Accademia di Brera, avendo come maestri Cesare Tallone, Giuseppe Mentessi e Achille Cattaneo. Partecipa alla prima guerra mondiale con il grado di maggiore di fanteria. Nel 1925 vince il premio Principe Umberto della Biennale di Brera, Accademia di cui viene nominato titolare di pittura nel 1930 e di cui sarà direttore dal 1945 al 1958. Nel 1937 vince la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi. Nel 1944, denunciato per antifascismo, viene deportato a Mathausen e poi a Gusen, dove esegue una serie di disegni. A Milano esegue vetrate per il Duomo, la basilica di San Simpliciano e la chiesa delle suore del Sacro Cuore, nonchè affreschi per la chiesa di Santa Maria del Suffragio. Partecipe attivo alla vita artistica ed intellettuale del capoluogo lombardo, muore nel 1973.
CASCELLA MICHELE
Nel corso della sua lunga vita artistica articolatasi in quasi otto decenni di intensa attività, Cascella ha saputo mantenere uno stile unico, inconfondibile e pressoché immune dalle contaminazioni delle correnti ed avanguardie pittoriche del novecento. Le sue opere, comprendenti tele, tavole, pastelli e disegni, sono esposte nei più importanti musei italiani e internazionali, tra i quali il Victoria and Albert Museum di Londra, la Galerie nationale du Jeu de Paume di Parigi, il National Museum of History and Art in Lussemburgo, il Musée d'Art Moderne a Bruxelles e la De Saisset Art Gallery dell'Università di Santa Clara in California, dove è esposta una vasta collezione permanente di opere. Copiosa risulta pure l'opera grafica, comprendente litografie, cromolitografie, serigrafie e acqueforti, tecniche che utilizzò sin da ragazzo e grazie alle quali conobbe - soprattutto sul finire del XX secolo - e mantiene tuttora una notevole notorietà presso il grande pubblico. I tratti distintivi del pittore contemperano la superba capacità compositiva, cui si aggiungono la grande padronanza del disegno e le vibranti cromìe, di cui sono esemplari fattispecie le composizioni floreali, nelle quali Cascella tocca vette espressive elevatissime. Dopo aver svolto le prime attività artistiche sotto la guida del padre Basilio, nel 1907 tiene, assieme al fratello Tommaso, la sua prima mostra personale nelle sale della Famiglia Artistica Milanese. Nel 1909, sempre col fratello Tommaso, allestisce una mostra nella Galleria Druet di Parigi, partecipando nello stesso anno al Salon d'Automne. A Roma, nel 1919, tiene una mostra personale alla Galleria Bragaglia e conosce in quella occasione Carlo Carrà che consente poi il trasferimento della mostra a Milano nella Galleria Lidel. Nel 1920 si stabilisce definitivamente a Milano dove frequenta con entusiasmo il poeta Clemente Rebora, da cui confesserà di aver tratto ispirazione per la realizzazione di alcune sue opere. Dal 1928 al 1932 viaggia tra l'Italia e Parigi dove, nel 1937, gli viene assegnata la medaglia d'oro all'Esposizione Internazionale. Nel 1938 esegue le scenografie dell'opera Margherita da Cortona rappresentata al Teatro alla Scala. Dal 1928 al 1942 è presente a tutte le edizioni della Biennale d'arte di Venezia, e nell'edizione del 1948 avrà una sala personale. Dal 1938 risiede a Portofino che diventa una fonte d'ispirazione delle sue opere tarde. Dopo la seconda guerra mondiale si fanno più frequenti le sue mostre all'estero: Parigi (negli anni cinquanta e sessanta) ma anche Sudamerica (soprattutto Buenos Aires e Montevideo) e Stati Uniti. E proprio negli USA, in California, si stabilirà per lunghi periodi di tempo, alternando periodi di permanenza in Italia (ha risieduto per alcuni anni in campagna nei pressi di Colle Val d'Elsa) ed in Europa. I soggetti più rappresentati sono fiori, campi di grano e papaveri, i paesaggi abruzzesi e Portofino. Importanti sono state le mostre antologiche di questo periodo.
CINOTTI GUIDO
Nato a Siena nel 1870, si trasferisce presto a Milano, dove studia all’Accademia di Brera e dove è presente ad ogni manifestazione pubblica. Nel 1894 vince il premio Mylius dell’Accademia di Brera con un dipinto intitolato Conigli. Dopo l’influenza della pittura di Filippo Carcano, si accosta al divisionismo di matrice segantiniana, accogliendo anche spunti liberty – nature morte, fiori – per poi orientarsi, nel primo dopoguerra, su una pittura d’impasto a tocchi di colore spatolato. Muore a Milano nel 1932.
COSTA GIOVANNI
Giovanni detto Nino Costa nasce a Roma nel 1826: il padre è un rappresentante della borghesia industriale romana. Durante la giovinezza riceve un'educazione di impostazione classica, rimane affascinato dall'arte del medioevo e del rinascimento e si dedica alla pittura frequentando, sempre nella città natale, Roma, intorno al 1848, lo studio del Camuccini, quello del Coghetti e infine quello di Podesti e del Clerici. Ha però una propensione per la natura e la pittura dal vero che lo allontanano da questi artisti, intrinsecamente legati alle esperienze neoclassica e romantica. Convinto assertore di un'unità nazionale Nino Costa partecipa alla prima guerra di indipendenza, anche al seguito di Garibaldi. Nella Repubblica romana del 1849 è consigliere municipale. Alla caduta della Repubblica deve fuggire. Dopo la restaurazione, tra il 1850 e il 1851, compie un viaggio a Napoli: qui probabilmente conosce i risultati della scuola di Posillipo che affinano la sua naturale propensione per la rappresentazione verista del paesaggio. In questi anni inizia a soggiornare ad Ariccia dove frequenta alcuni artisti stranieri: i Nazareni come Overbeck e Cornelius, con cui condivide la passione per l'arte antica, trovando in essi un analogo riconoscimento del Quattrocentismo, e, ad accentuare una tendenza idealistica che si sta facendo simbolista, e che sarà accentuata verso la fine del secolo, anche Boecklin e Oswald Achenbach. Risalgono a questo periodo le prime conoscenze inglesi: nel 1852 incontra George Mason, in compagnia del quale dipinge en plein air nella campagna romana, e nel 1853 conosce Frederick Leighton. Probabilmente sono loro a informare l'artista romano sulle idee di Ruskin, che dovevano apparire congeniali al Costa la cui ricerca pittorica si fondava sulla rielaborazione del vero attraverso il "sentimento del pensiero". I suoi contatti con artisti stranieri di tendenze simbolistiche si moltiplicano tra il 1850 e il 1867: frequenta Boecklin, Emile David, Mason, Leighton, ed entra in rapporti col gruppo del Caffè Michelangelo. Conosce così i Macchiaioli, divenendo amico di Cabianca, De Tivoli, Banti, Fattori. Tra il 1855 e il 1856 la conoscenza con lo svizzero Emile David lo informa sulle prove di Corot e dei barbizonniers, e dell'inglese Charles Coleman lo convince definitivamente ad abbandonare i soggetti storici. Viaggia molto: a Londra dove attraverso Leighton conosce Burne-Jones e Watts, a Parigi, dove nel 1862 espone al Salon e riceve gli apprezzamenti favorevoli da Corot, Descamps, Troyon; la stessa cosa si ripete nel 1865. Mantiene contatti a Firenze con il critico e difensore dei Macchiaioli Martelli e con gli amici inglesi Howard, Richmond, Leighton. Dal 1856 ha inizio la sua fortuna presso l'ambiente inglese. Da questo periodo il processo creativo di Costa si prolunga nel tempo, inizia opere che conclude molto tempo dopo, tempo necessario per far maturare i contenuti di una sua ricerca idealistica della perfezione. Da questa tendenza in definitiva spirituale nasce la sua opera più nota, La Ninfa nel bosco, iniziata nel 1863 e terminata venti anni dopo; in essa si riassume così un percorso interiore che conduce alla pittura simbolista. Nel 1859 torna a combattere per l'indipendenza italiana, arruolandosi nel Regio Esercito piemontese. Alla fine dello stesso anno torna Firenze, divenuta punto di ritrovo di molti patrioti dopo l'abbandono di Napoleone III, nell'intenzione di procedere con la politica delle annessioni spontanee all'unificazione della penisola. Ma Firenze è anche centro d'arte e qui Costa svolge un ruolo significativo nel circolo del Caffè Michelangelo. Influenza soprattutto Giovanni Fattori, ed è lui a convincere i giovani Macchiaioli ad abbandonare i soggetti storici e dedicarsi alla pittura dal vero, nonché dell'introduzione innovativa del formato accentuatamente longitudinale. Negli anni Sessanta alterna alla residenza fiorentina i soggiorni romani, durante i quali, tra il 1865 e il 1866, incontra George Howard. Questi, divenuto Lord Carlisle sosterrà la fortuna di Costa in Inghilterra e ne diverrà uno dei maggiori collezionisti. Nel 1867 si stabilisce nuovamente a Firenze in seguito alla sconfitta di Mentana e lavora tra Livorno, Castiglioncello e Bocca d'Arno. Nino Costa muore il 31 gennaio del 1903 a Marina di Pisa. È sepolto presso il Cimitero del Verano a Roma.
CRESSINI CARLO
Nato a Genova nel 1864 da famiglia colta e benestante, Carlo Cressini studia con Enrico Gamba all’Accademia Albertina di Torino e con Giuseppe Bertini all’Accademia di Brera di Milano. Esordisce a livello espositivo nel 1884 e in quegli anni stringe rapporti d’amicizia con altri pittori (Longoni, Sottocornola, Mentessi, Belloni). Partito da premesse post-scapigliate, si esercita inizialmente in ritratti e nature morte, ma dal 1886 affronta con impegno il tema del paesaggio, risolvendolo con pennellate sciolte e toni sommessi e seguendo la lezione del naturalismo lombardo. Negli anni ’90 realizza ritratti ambientati in cui si manifesta l’interesse per gli effetti di luce stimolato dal divisionismo, mentre più tardi dipinge alcune opere di arte sociale, prive però di evidente denuncia. Cressini, dedito all’alpinismo, è noto soprattutto come “lo specialista della montagna alta”, tema che comincia ad affrontare all’inizio degli anni ‘90, recandosi principalmente in Valtellina, Ossola e nelle Alpi Bernesi. Per questo tipo di opere utilizza, a partire dalla seconda metà del primo decennio del Novecento, la tecnica divisionista, applicata con personale autonomia e mai con esasperato rigore. Muore a Milano nel 1938.
DE PISIS FILIPPO
De Pisis inizia adolescente a scrivere poesie, ma si dedica anche allo studio della pittura sotto la guida del maestro Odoardo Domenichini nella sua città natale, Ferrara, ed è proprio la pittura in seguito a portarlo a vivere una vita avventurosa, appassionata in varie città sia italiane Roma, Venezia e Milano, sia europee Parigi e Londra. Nel 1915 incontra De Chirico e il fratello Alberto Savinio a Ferrara per il servizio militare e nel 1917 Carlo Carrà. Conosce e si entusiasma rimanendo suggestionato del loro modo di concepire la pittura e, inizialmente, ne condivide lo stile metafisico ma poi brevi soggiorni a Roma e a Parigi all'inizio degli anni venti gli aprono nuovi orizzonti pittorici. Inizia a rielaborare un suo stile fatto di suggestioni e soggetti del tutto originali, dove il tratto pittorico diventa spezzato quasi sincopato, definito da Eugenio Montale "pittura a zampa di mosca". L'amicizia con Julius Evola gli consente di approfondire i suoi interessi esoterici e di trasferirli nell'arte moderna. De Pisis dopo avere scritto prose, liriche e poesie raccolte ne I Canti de la Croara ed Emporio nel 1916, nel 1920 inizia a scrivere il saggio La città dalle 100 meraviglie, pubblicato in seguito a Roma nel 1923, dove si può notare l'influenza dei fratelli De Chirico con la loro visione nostalgica e malinconica della pittura. Alla ricerca di nuovi stimoli si trasferisce nel 1925 a Parigi. Il soggiorno si protrasse ininterrottamente per quattordici anni rivelandosi proficuo sotto vari aspetti, ed essenziale sotto l'aspetto artistico. Conosce Édouard Manet e Camille Corot, Henri Matisse e i Fauves, per un uso più gestuale del colore e, oltre alle nature morte, dipinge nel periodo parigino paesaggi urbani, nudi maschili e immagini d'ermafroditi. Nel 1926 de Pisis fa una sua personale presentata da Carlo Carrà alla saletta Lidel di Milano e sulla scia del successo, riesce ad esporre la sua prima mostra personale parigina alla Galerie au Sacre du Printemps con la presentazione di De Chirico, continua in seguito ad esporre anche in Italia e inizia a scrivere articoli per L'Italia Letteraria e altre riviste minori. Stabilì un rapporto intenso con il pittore Onofrio Martinelli, già incontrato a Roma. Tra il 1927 e il 1928 i due artisti divisero anche una casa-studio, in rue Bonaparte. Entra quindi a far parte degli "italiani di Parigi", un gruppo d'artisti che comprendeva de Chirico, Savinio, Massimo Campigli, Mario Tozzi, Renato Paresce e Severo Pozzati, e il critico francese Waldemar George (che nel 1928 cura la prima monografia su de Pisis) presenta la mostra "Appels d'Italie" alla Biennale di Venezia del 1930. Durante il periodo parigino visita Londra, per brevi soggiorni che ripeterà ben tre volte, stringendo rapporti d'amicizia con Vanessa Bell e Duncan Grant. Nel 1939 ritornato in Italia, De Pisis, in occasione del Premio St. Vincent, passa un'estate nella cittadina valdostana dove ha anche l'occasione di incontrare il pittore locale Italo Mus. Si stabilisce a Milano e, in seguito alla distruzione del suo studio in Via Rugabella nel 1943, si stabilisce a Venezia dove si lascia ispirare dalla pittura di Francesco Guardi e di altri maestri veneziani del XVIII secolo. Partecipa alla vita culturale della città lagunare, ove fu amico e maestro del pittore e concittadino Silvan Gastone Ghigi, ma dopo un breve soggiorno a Parigi tra il 1947 e il 1948, inizia a rivelare i primi sintomi di un'arteriosclerosi che lo costringe a ricoverarsi in una clinica vicino a Brugherio. Dipinge fino al 1953, dopodiché le precarie condizioni di salute non gli permetteranno più di svolgere alcun lavoro e il 2 aprile 1956 muore a Brugherio.
DONGHI ANTONIO
Nasce a Roma il 16 marzo 1897 da Ersilia de Santis, romana, e da Lorenzo, commerciante di stoffe originario di Lecco. Dopo la separazione dei genitori trascorre un periodo in collegio, poi si iscrive al Regio Istituto di Belle Arti di Roma, frequentando i corsi comuni e i corsi superiori di decorazione fino alla licenza conseguita nel 1916. Nello stesso anno, iniziato il servizio militare, è inviato in Francia, al seguito della 15 compagnia ferrovieri. Al termine della guerra, si dedica allo studio della pittura nei musei di Firenze e Venezia, interessandosi soprattutto al XVII e XVIII secolo. L'esordio si colloca nel 1922, quando presenta un'opera alla XV Esposizione della Società amatori e cultori di belle arti di Roma. Il clima in cui Donghi inizia ad operare è quello sviluppatosi intorno al gruppo di "Valori Plastici" e nella "Terza saletta" di Aragno negli anni del dopoguerra. Nel 1924 le prime mostre personali nella Sala Stuard di via Veneto e alla Casa d'Arte Bragaglia, rendono nota la pittura di Donghi a un pubblico più vasto. In dicembre, alla Galleria Pesaro di Milano, Donghi partecipa alla importante Esposizione di venti artisti italiani, una mostra, curata da Ugo Ojetti, che vede la partecipazione, tra gli altri di, de Chirico, Casorati, Guidi, Oppi, Tozzi, Trombadori. Donghi appare già a questa data come un esponente di quella tendenza che poco dopo il critico tedesco Franz Roh definisce "Realismo magico". Nonostante il suo carattere schivo l'artista assume nel corso degli anni Venti una dimensione di lavoro sempre più internazionale. Appare molto importante l'appoggio ricevuto da parte di Ugo Ojetti e anche il rapporto con il musicista Alfredo Casella, uno dei primi collezionisti italiani disposti ad apprezzare il suo lavoro. Nel 1928, dopo una nuova esposizione a New York, partecipa alla Biennale di Venezia. Nel marzo 1929 con cinque opere partecipa alla Prima mostra del Sindacato laziale fascista degli artisti. Sempre nel 1929 partecipa alla Seconda mostra del Novecento Italiano. Gli anni Trenta sono per Donghi anni di intenso lavoro e di notevoli affermazioni. Nel 1936 ottiene l'incarico di figura disegnata presso la Regia Accademia di Belle arti e liceo artistico di Roma. Da questo momento si divide tra l'insegnamento e la pittura, sviluppando soprattutto il tema del paesaggio italiano, indagato e studiato dal vero in frequenti viaggi. Sono in gran parte paesaggi le opere esposte tra il 1938 (Roma, Galleria Jandolo) e il 1940 (Milano, Galleria Gian Ferrari) ma non vanno dimenticati alcuni quadri che tornano sui suoi temi preferiti: saltimbanchi, cantanti e attricette da avanspettacolo, e poi " attori" inconsapevoli come cacciatori, pescatori, fanciulle in vacanza, giovani amanti e perfino un attore d'eccezione come Il duce, ritratto su un bianco cavallo in un quadro (disperso) eseguito per il Premio Sanremo del 1937. La partecipazione alla quarta Quadriennale (1943) e la personale alla Galleria La Finestra di Roma (1945) rivelano i sintomi di un cambiamento di linguaggio che si farà sempre più evidente: si accentuano le componenti calligrafiche, a scapito della composizione complessiva dei dipinti, mentre sempre più raramente l'artista affronta soggetti di grandi dimensioni. Il clima culturale del dopoguerra non contribuisce certo alla sua serenità di lavoro. Il periodo che va dal 1950 alla morte (Roma 16 luglio 1963) può essere considerato come un periodo di ripiegamento. Donghi dipinge quasi esclusivamente paesaggi, partecipa alle Biennali di Venezia del 1952 e 1954 in tono minore, e così alle Quadriennali (1951, 1955, 1959).
DUDREVILLE LEONARDO
Nel 1905 stringe amicizia con Anselmo Bucci, con il quale affitta uno studio e compie un viaggio a Parigi l’anno seguente, mentre nel 1907 si presenta ad Alberto Grubicy con le sue prime opere, di stampo divisionista, e viene accettato tra gli artisti della galleria, potendo così esporre con loro a Parigi. Conosce quindi Boccioni, Bonzagni e i futuristi, ma la sua pittura, dal 1912, si volge ad un’astrazione di ascendenza simbolista; tra il 1913 e il 1914 fonda, con il critico Ugo Nebbia, il gruppo “Nuove Tendenze”, cui aderiscono Erba, Funi, Sant’Elia, Chiattone. Dopo la guerra Dudreville abbandona le opere astratte e ritorna al realismo, mentre nel 1919 si riavvicina ai futuristi. Nel 1922 è tra i fondatori del gruppo “Sette pittori del Novecento” – comprendente Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi, Sironi – ma se ne stacca presto. In questi anni la sua pittura approda a un realismo minuzioso che si esprime particolarmente nelle nature morte, oltre che nei paesaggi. Tale ricerca realistica prosegue anche dopo il 1942, anno in cui Dudreville si trasferisce sul lago Maggiore, a Ghiffa, dedicandosi fino agli ultimi giorni di vita (1975) alle nature morte – soprattutto cacciagione – ai paesaggi e ai ritratti.
FORNARA CARLO
Nato in una famiglia contadina a Prestinone, in Val Vigezzo, nel 1871, si iscrive alla locale Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini di Santa Maria Maggiore, dove segue gli insegnamenti di Enrico Cavalli. Nel 1891 partecipa alla Prima Triennale di Brera, dove vede le prime opere divisioniste, mentre dopo un viaggio in Francia (1894-95) si accosta al neoimpressionismo. Nel 1897 la giuria della Terza Triennale di Brera rifiuta il suo dipinto En plein Air, che viene invece giudicato positivamente da Segantini e da Pellizza. Quindi entra a far parte del cenacolo milanese del mercante d’arte Alberto Grubicy, che lo inserisce in una serie di mostre e manifestazioni anche internazionali, ormai presentato come esponente del divisionismo “ideale” insieme a Previati. Il legame con la galleria Grubicy garantisce a Fornara la tranquillità economica e la possibilità di risiedere nell’amata Valle Vigezzo. Quindi la sua pittura si evolve verso soluzioni post-impressioniste avvolgendosi spesso attorno a persistenze divisioniste, trattenute dall’uso della pennellata sottile e filiforme. Dal 1922 si ritira nella casa di Prestinone, dove muore nel 1968.
FRAGIACOMO PIETRO
Figlio di Domenico, originario di Pirano, e di Caterina Dolce nacque a Trieste il 14 ag. 1856. A otto anni (Pica, 1905), o forse a dodici (Ojetti, 1911), si trasferì con la famiglia a Venezia. Nel 1871 andò a vivere a Treviso avendo trovato un impiego, inizialmente come tornitore e fabbro, quindi come disegnatore, presso la Società veneta di costruzioni meccaniche. Nel 1877, rientrato in famiglia, si iscrisse all'Accademia di belle arti di Venezia. Seguì, tra gli altri, i corsi della scuola di paesaggio istituita e diretta da D. Bresolin, presso il quale fece le prime esperienze di pittura all'aperto. Dopo un solo anno abbandonò gli studi. Continuò tuttavia a dipingere sotto la spinta di G. Favretto, del quale divenne amico. Intorno al 1878-79 conobbe E. Tito con il quale era solito recarsi a dipingere vedute a S. Pietro in Castello. Nel corso degli anni Ottanta il F. prese parte con i suoi paesaggi alle maggiori esposizioni nazionali: a Milano nel 1882, a Roma l'anno seguente, nuovamente a Torino nel 1884, dove presentò Venezia povera. Diversamente da Favretto e Tito, il F. non fu attratto dai motivi del folklore veneziano. Dedicò piuttosto la sua attenzione al paesaggio dell'entroterra lagunare e alle variazioni della luce e del colore nel cielo e sulle acque. A partire dagli anni Novanta il F. abbandonò la pittura dai toni chiari e dalla pennellata leggera degli inizi. Scelse di realizzare i suoi paesaggi attraverso una stesura materica del colore, sia nelle opere di maggiore impegno sia nei relativi e numerosi bozzetti preparatori di piccole dimensioni. Contemporaneamente sperimentò l'uso della tempera con sovrapposizioni di velature a olio (Ojetti, 1911, pp. 190 s.). Nel 1895, quando ormai, grazie alla sua personale produzione di paesaggista, si era ritagliato un ruolo di primo piano nel contesto artistico veneziano e nazionale, il F. entrò a far parte del comitato ordinatore dell'Esposizione internazionale d'arte della città di Venezia (la futura Biennale). Da quel momento partecipò a tutte le edizioni della Biennale veneziana, soprattutto come espositore (nel 1910 allestì una mostra individuale con 72 lavori), ma anche come commissario della sezione veneta (1905). Proprio la rassegna veneziana offrì al F., artista solitario e strettamente legato alla tradizione del naturalismo ottocentesco, la possibilità di confrontarsi con la ricerca internazionale. Il F. morì a Venezia il 18 maggio 1922.
GIGNOUS LORENZO
Nipote del noto pittore Eugenio Gignous, frequentò l'Accademia di Brera dove nel 1884 ottenne il premio Mylius per il paesaggio storico, quell’anno con soggetto libero, con una veduta della località di Sesto Calende sul Lago Maggiore (luogo dello sbarco di Garibaldi e dei reggimenti dei Cacciatori delle Alpi nel maggio 1859). Questo paesaggio ricorre con frequenza nel suo repertorio fino a diventare un tema caratteristico di tutta la sua produzione di forte matrice naturalista. Partecipò alle principali rassegne espositive nazionali dell’epoca affermandosi rapidamente come paesista con un repertorio di vedute del Lago Maggiore studiate dal vero in occasione dei soggiorni a Stresa, ospite di Eugenio Gignous che vi si trasferì con la famiglia dal 1887. All’intensa attività pittorica affiancò fino al 1922 l’impiego presso le Ferrovie dello Stato, grazie al quale ottenne importanti commissioni pubbliche.
GOLA EMILIO
Di nobili origini, è incoraggiato all'arte fin da adolescente dal padre Carlo, pittore dilettante. Nel 1873 consegue la laurea in ingegneria industriale al Politecnico di Milano; contemporaneamente si dedica alla pittura sotto la guida di Sebastiano De Albertis, completando la sua formazione con ripetuti viaggi nei Paesi Bassi e a Parigi. All'esordio all'Esposizione di Belle Arti di Brera nel 1879 segue una partecipazione costante alle rassegne nazionali, ma ottiene i maggiori riconoscimenti ufficiali a livello europeo. Apprezzato ritrattista fin dagli anni ottanta, tra i suoi soggetti preferiti ricorrono figure femminili della nobiltà milanese, rappresentate nella loro dimensione mondana, adottando però un naturalismo vigoroso. Alla produzione di ritratti si affianca un ricco repertorio di vedute milanesi e paesaggi brianzoli, tradotti con un'accensione cromatica che costituisce la cifra stilistica dell'artista. Attivo tra la Liguria e Venezia, nella produzione tarda si dedica all'esecuzione di marine condotte con grande sintesi formale e intensità espressiva.
GNECCHI FRANCESCO
Proveniente da una facoltosa famiglia di imprenditori della seta, è avviato agli studi di giurisprudenza presso l'Università di Pavia. Nel 1866 si arruola come volontario nella guerra contro l'Austria. Esercita la pittura in contemporanea all'attività di famiglia fino al 1878 e, in seguito, ricopre il ruolo di consigliere di amministrazione di importanti società lombarde. Iniziato agli studi artistici da Mosè Bianchi e Achille Formis, si dedica prevalentemente al paesaggio ricavando suggestioni dalle coeve ricerche del naturalismo lombardo. La sua ricca produzione di paesaggi – perlopiù tratti sul Lago Maggiore, sulla Riviera ligure, in Engadina – rivela un artista colto e aggiornato. Anche la costante presenza alle maggiori rassegne espositive milanesi e nazionali, dal 1881 fino al 1891, concorre a definire un'immagine professionistica della sua attività. L'amicizia con Luigi Scrosati favorisce il suo interesse per la pittura di fiori. Dal 1870 si dedica assiduamente al collezionismo di monete romane, pubblicando in collaborazione con il fratello Ercole alcuni opuscoli dedicati alla classificazione della sua raccolta. D'accordo con il fratello decise di occuparsi di monete romane, mentre quello si occupava di monete medievali italiane. Fondò, assieme al fratello ed altri appassionati, la Rivista italiana di numismatica, diretta inizialmente da Solone Ambrosoli e in seguito da lui e dal fratello Ercole. Nel 1892 partecipa alla fondazione della Società numismatica italiana assieme a vari studiosi di numismatica italiani tra cui Solone Ambrosoli, il fratello Ettore Gnecchi, il conte Niccolò Papadopoli, Antonino Salinas, Giulio Sambon, Costantino Luppi. Nel 1906 gli fu conferita la medaglia della Royal Numismatic Society di Londra.